Se è vero che Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona, di cui la prima era che fare i genitori è impossibile, e la seconda era che i migliori sono quelli che sono consapevoli di quest’impossibilità, è altrettanto vero e insindacabile che Freud si occupava per lo più di psicoanalisi e neurologia, e mai si ricorda un suo saggio in fatto di capacità genitoriale; e forse è stato meglio così.
Fare il genitore non è impossibile, anzi. Ma non è neanche facile. Specie il padre.
Innanzitutto c’è da ricordare che un padre non è solo colui che contribuisce a mettere al mondo una creatura e poi magari scappa a gambe levate alla visione della tacchetta verde sul test di gravidanza. Perché quelli, a casa mia, si chiamano mezzi uomini. Un padre è molto di più. A volte è tutto quello che hai.
Un padre è quello che la mattina ti allaccia le scarpe e ti sistema il colletto del grembiule prima di accompagnarti all’entrata di scuola, rigorosamente senza prenderti per la mano, perché lui sa già che tu sei un uomo fatto e finito e che prendersi per mano è roba da femminucce. Un padre è anche quello che viene a riprenderti a scuola alle dieci e mezza, perché la mano passi, ma il mal di pancia viene a tutti, non solo alle femminucce. Un padre è quello che viene a vederti giocare al campo la domenica e che dopo il tuo gol gongola trionfante verso gli altri padri sprizzando vanto dalle sue guance ispide per il suo piccolo prodigio, che avrebbe giurato potesse calcare un campo di Serie A più tardi.
Ma un padre è anche (e soprattutto) quello che adempie un compito che evidentemente non può spettare a quella bonacciona della mamma, una parola che non può che uscire dalla bocca di una figura autorevole e autoritaria, un monosillabo in grado di farti provare una tristezza tale che neanche quando hai appreso della morte dell’orsetto Knut. Dire di ‘no’. Quello che da piccoli (e relativamente tali) suona come la più grande ingiustizia nella storia dell’umanità è in realtà l’impermeabile che ci ripara dalla pioggia a cui la nostra smania di conoscere il mondo vuole, appunto inconsciamente, andare incontro. Lo capiremo più in là, troppo più in là. Quando ormai ci sarà il sole e potremo levare l’impermeabile. Ma fino a lì sarà stato utile, e noi non sapevamo spiegarci il perché. Quella parolina sorda, di sole due lettere, da osservare in ossequioso silenzio, senza piangere (perché non siamo mica femminucce) è in quel momento storico della nostra vita la croce, la luna nera. “Non puoi invitare Stefano oggi”, “Non puoi andare in discoteca stanotte”, “Non puoi comprare quel giubbotto, costa troppo”. Quella forma di negazione nella frase ci spezzava il cuore. “Ma come, il padre di Stefano glielo ha fatto comprare, e tu non lo fai comprare a me?” No, almeno non questa volta. Significava fare un passo indietro rispetto agli altri, sentirsi un po’ più sfigati e con i genitori più cattivi del mondo. Nessuno di noi, a 14 anni, avrebbe mai pensato che in realtà i nostri genitori ci danno ogni giorno tutto quello di cui abbiamo bisogno, privandoci sistematicamente di quello che, in realtà, è eticamente deleterio somministrare a un ragazzino. Nessuno di noi avrebbe mai pensato che in realtà nostro padre era un giusto a dirci di no, e non un cattivo. Nessuno di noi non provava rancore e livore ma aveva una voglia matta di dire “grazie” al proprio papà dopo un bel no. Nessuno.
Ma, tuttavia, il ruolo del padre è un ruolo imprescindibile nella nostra strutturazione morfologica e morale, e ancora di più lo è quello del padre che dice di no. E adesso vi spiego perché.
I nostri padri – che noioso questo qua, mò parte con la retorica demagoga del sessantottino – erano (e sono ancora) quelli che bastava stare intorno a un falò per essere felice, erano quelli che in televisione sentivano di Pinochet e delle morti bianche, erano quelli che hanno esultato per il gol di Tardelli a Spagna ’82. I nostri padri hanno guidato la 127 e chiamato con i gettoni. Loro uscivano di casa senza lo smartphone e guadagnavano in lire.
I nostri padri facevano il vino con mani e piedi nudi, ai nostri padri veniva legata la mano sinistra se solo si fossero permessi di scriverci, con la mano del diavolo. I nostri padri erano quelli di Giggirriva e Maradona, quelli di De Andrè e Pink Floyd. I nostri padri hanno tifato Senna e creduto in Berlinguer. Sono quelli che ci hanno dato il vademecum della vita, senza fornirci il bugiardino, perché la patente di vissuto te la dà solo l’esperienza, e solo dopo averti fatto diversi esami. I nostri padri hanno vissuto la storia prima di noi, surfato sull’onda della vita ancora prima che noi conoscessimo il mare. I nostri padri hanno ricevuto dei ‘no’ prima di noi, e rimuginatoci sopra prima di noi, e imparato da essi prima di noi. Ed è proprio questo il valore del ‘no’. Il ‘no’ non è la porta chiusa, ma la chiave per aprirla, quella porta.
E allora sì, sono contento di aver ricevuto dei ‘no’ in vita mia. Sono contento di non poter essere andato in discoteca quella sera, sono contento di non aver potuto invitare Stefano quel pomeriggio, e sono contento di non essermi potuto comprare il Moncler quella volta. Perché ognuno di quei ‘no’ aveva un significato molto più profondo di quanto non potessi vedere io al di là del mio naso. Ognuno di quei ‘no’ in realtà era propedeutico a quello che avrei affrontato poi nella mia vita. Ognuno di quei ‘no’ mi ha fatto crescere meglio che se fosse stato un ‘sì’.
E allora stanotte, anzi domattina, quando tornerete dalla discoteca e vedrete vostro padre bivaccato sul divano a guardare per l’ennesima volta la replica di Italia – Germania del 2006, andategli incontro, sorridetegli e lasciatevi sfuggire un “Grazie, papà.” Lui non capirà inizialmente. Lo capirà più in là, troppo più in là. Quando ormai sarete troppo grandi entrambi per riderne insieme. Ma fino a lì sarà stato utile, e lui non sapeva spiegarsi il perché.
Riccardo Soro
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