Quando l’erba del vicino è sempre più verde (e la nostra continua a marcire)

 

Succede così: che in 8 anni passiamo da alzare una Coppa del Mondo in un cielo azzurro sopra Berlino a vedere, la squadra di Berlino, sollevarne un’altra, Coppa del Mondo, sotto il naso del paese che il calcio l’ha dato al mondo. Sono quei momenti dove si sprecano complimenti, dediche e in questo caso, fiumi di birra. Sono quei momenti in cui, tirate le somme, chi esce innegabilmente sconfitto deve, giocoforza, farsi delle domande. Delle domande semplici, per carità. Ma delle domande che, una volta per tutte, vogliono una risposta e una reale risalita alla soluzione. Lasciamo per un attimo il calcio.

9 luglio 2006: l’Italia vince il quarto campionato mondiale di calcio della sua storia, ventiquattro anni dopo l’ultimo. In quel periodo chi vi scrive era poco più che un marmocchio, ma si ricorda benissimo la sfilata di macchine sull’asse mediano per arrivare alla città, rigorosamente a petto nudo e urlante fuori del finestrino dell’auto con il tricolore in mano. Ciò che non ricordo era lo spread, Frau Merkel che dettava legge in Europa, i ragazzi come me che volevano emigrare in terra teutonica per cercar fortuna. Ecco, questo proprio non me lo ricordo. Ma non voglio fare polemiche sterili, il mondo va avanti e ci sono paesi che battagliano per il podio e altri che, malvolentieri, devono accontentarsi delle briciole. Ma una cosa è accontentarsi delle briciole dopo aver lottato per la pagnotta, altra cosa è accettare passivamente i pezzi di mollica, perché non si ha un progetto, non si è programmato, e si tira a campare. Vi siete mai chiesti cosa è successo dopo il mondiale tedesco del 2006? Ve lo dico io. Politicamente la Germania ha operato affinché non venisse mai sul serio tramortita dalla botta della crisi economica (2008/2009, ndr), istituendo subito una serie di mini-job, nient’altro che sussidi statali – più che altro creati per anziani e giovanissimi – che non solo hanno avuto funzione sociale ma che anche, e soprattutto, hanno avuto l’obbiettivo di abbassare il costo del lavoro complessivo, tenendo bassa la domanda interna e ampliando il saldo commerciale. La conseguenza logica è che l’inflazione si mantiene su livelli non allarmanti e il tenore di vita è pienamente dignitoso. Non è finita: la Merkel, già cancelliera tedesca dal 2005, aumenta i tassi ai prestiti a due anni (0%). L’Italia, per fare un parallelo, concede tassi vicini al 7% sui titoli a 10 anni. E qualche anno dopo, con un colpo di reni propagandistico non da poco, concede 80 euro in più in busta paga (con criteri quantomeno rivedibili) ai lavoratori entro un certo reddito annuo. E qui torniamo al calcio: dal 2006 al 2010 la Germania ridefinisce completamente il concetto di gestione societaria e dei settori giovanili. Per quattro anni rantola nel buio (pur arrivando in finale a Euro2008). Dal 2011 in poi conquista il quarto posto utile alle qualificazioni Champion’s (a scapito dell’Italia che tutt’ora ne ha 2+1) e incomincia a dettare legge calcistica nel vecchio continente. Resuscitano bellissime realtà come il Borussia Dortmund di Klopp (calcio spettacolo ed età media 23 anni), il Bayern riconquista i vertici nelle competizioni europee e la Bundesliga acquista quel prestigio internazionale che forse non ha mai avuto. I primi a capirlo furono il nostro Toni e Ribery. A ruota, seguirono gente come Louis Van Gaal, Luiz Gustavo, Javi Martinez, Mario Mandzukic, Pep Guardiola. E quando i nomi grossi non vai a pescarli fuori, basta che ti guardi in casa. E così viene fuori una vera e propria schiera di talenti cresciuti nelle cantere teutoniche. Neuer, Schmelzer, Kroos, Hummels, Reus, Schürrle, Götze, e se vogliamo pure Gundogan e Lewandowski, che pure essendo rispettivamente turco e polacco sono cresciuti tra i ragazzini del Dortmund. Tutto questo mentre in Italia si continuava allegramente a pensare che “ma si, è un momento. Fra un po’ passa”. Ma il momento non è un mal di testa, e per vincere ci vuole un progetto, una programmazione, e la serietà di seguire entrambi. Chi è genitore o ha giocato tra i ragazzi di una società di calcio, seppur piccola che sia, sa di cosa parlo. Funziona così: sei grosso giochi con i grandi, sei piccolo giochi con i tuoi pari-età. Perché se sei grosso, io allenatore ho più possibilità di vincere il mio piccolo campionato primavera, di far contento il mio presidente (che presumibilmente non mi esonererà) e di farmi un nome. Se sei piccolo, io con te non vincerò mai. That’s it, come direbbero a Cambridge. Questo è quanto. E allora a cosa servono i settori giovanili? Perché discriminare i ragazzi se una scuola calcio, per antonomasia, deve insegnare a giocare al pallone tutti quanti (o quantomeno far migliorare un giovane già bravo e coltivare il suo potenziale fino alla prima squadra)? Misteri tutti italiani. Ah, dimenticavo una cosa. Non poco tempo fa, il presidente del Bayern di Monaco Uli Hoeness, dopo avere ammesso di aver frodato circa 20 milioni di euro al fisco tedesco, ha serenamente accettato la condanna a 3 anni e 6 mesi di carcere, scusandosi con lo stato tedesco. Inutile dire che il giorno dopo sono arrivate le dimissioni da presidente del Bayern e da tutte le altre cariche che ricopriva in società.

No, così. Giusto per dire che spesso, l’erba del vicino, non è più verde per caso.

 

 

Riccardo Soro

® RIPRODUZIONE RISERVATA

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