Sempre più spesso, passeggiando per le vie della mia Cagliari, mi capita di incrociare gli occhi di ragazzi, donne, studenti, baristi, disoccupati, sportivi, uomini della funzione pubblica. Ruoli distinti, differenti impieghi. Vite diverse. Ma nel viso di ognuno di questi, in realtà, si può scorgere qualcosa di simile.
Lo sguardo è assente, spento. Il broncio è abbastanza pronunciato. La fronte aggrottata. La fretta è tanta, troppa. Per carità, non voglio partire con il solito pippone sulla crisi economica, per cui in tempi di recessione mancano i soldi, quindi non si può comprare, quindi le aziende non assumono, quindi non si trova lavoro, quindi c’è sconforto e rassegnazione. Non voglio suicidarmi con questo autolesionismo psicologico alla Tafazzi che ci piace tanto. Ma non voglio nemmeno illusioni co ‘ste americanate alla “Yes, we can” et similia. Non si affronta così l’ultimo dei problemi personali, figuriamoci la più esiziale delle crisi nella storia della società civilizzata. Vorrei solo che chi guarda storto, storce il naso e va di fretta si fermasse un attimo. Un attimo solo.
E provasse a rilassare i muscoli del viso, a chiudere gli occhi, ad abbozzare un sorriso. Vorrei che quel qualcuno immaginasse di poter aiutare un’altra persona, proprio in quel momento, proprio lì. Magari con le buste della spesa, magari dando un’indicazione stradale. Sono sicuro che quel qualcuno si sentirebbe immediatamente meglio. Figurarsi farlo.
Il punto è proprio questo, e non c’entra la crisi. Siamo continuamente strattonati per la maglia da un sacco di cose futili, vittime ignare di un timer biologico imposto dai tempi e, talora, da noi stessi. Perché diciamocelo, andiamo matti per il crearci i problemi da soli. E’ una cosa tutta italiana, un orgoglio patriottico. Quasi quasi ne andiamo fieri. Soprattutto se poi riusciamo a dirimerli, questi problemi. E passiamo per eroi. E giù di applausi e standing ovation al bar sotto casa. Siamo fatti così. Ci arrendiamo all’indifferenza invece che prendere una posizione, patteggiamo con l’ingiustizia invece che combattere per far valere le nostre grida. Siamo omertosi. Si, perché non parliamo, non sbottiamo. Mai un sussulto, sempre desistere. Desistere, desistere, desistere. Siamo completamente omologati alla massa, una strana entità di aggregazione dove regnano incontrastate strane regole. Rivedibili, quantomeno, considerato che siamo nel 2014. La regola del più forte, ad esempio (leggi anche ‘più ricco’ o ‘più potente’, ma anche ‘più figo’). Siamo immersi dentro una società che sappiamo non appartenerci, ma ce ne facciamo una ragione e cerchiamo anzi uno spazio dove poter stare quanto più comodi possibile. Siamo quelli del ‘Viva la rivoluzione!’, ma non ora, non subito. Domani, forse.
Siamo disinteressati agli altri e quindi, dicevo, socialmente omertosi. Che è un po’ un pleonastico. Un po’ come dire che Cassano non sarebbe il testimonial ideale del nuovo Zingarelli: la seconda parte della frase non aggiunge concettualmente niente alla prima. Siamo omertosi perché sappiamo, ma non denunciamo. Vediamo, ma giriamo la testa. Conosciamo, ma in fondo va bene così, finché il problema non bussa alla nostra porta. Curiamo egoisticamente il nostro orticello, e poi parliamo (male) di quello del vicino. E magari ci dispiaciamo pure se la sua raccolta non è sufficiente per farlo campare. Siamo pericolosamente falsi. Siamo quelli cui piace riempirsi la bocca di bellissime parole come ‘giustizia sociale’, ‘uguaglianza’ e ‘solidarietà’. Ma le parole sono importanti, come diceva il buon Nanni. E pesanti, aggiungo io. E nel frattempo perdiamo ogni traccia di onestà intellettuale, mentendo a noi stessi, creando alibi per i nostri livori, rancori e per le nostre invidie. Tagliamo il cordone ombelicale con la moralità e nel mentre scendiamo a compromessi con la nostra coscienza, come se essa fosse un software che si può man mano modificare. Togliamo la cintura di sicurezza dell’autostima (spesso infeltrita) perché noi, la stima, la compriamo in piazza.
Dovremmo invece tendere la mano a chi ne ha bisogno e aiutarlo a tirarsi su, dovremmo imparare ad ascoltare i problemi degli altri e non abbracciarli in maniera vile e situazionista solo quando salgono sul carro dei vincitori. Dovremmo guardarci negli occhi, tutti quanti, perché siamo tutti quanti ugualmente deboli di fronte ai problemi. ‘You may say I’m a dreamer’ direbbe John Lennon, uno che la rivoluzione l’ha fatta per davvero. Ma ora basta con gli inglesismi, con le citazioni, e con la grammatica. Per una volta la grammatica la lasciamo chiusa sulla scrivania.
Per una volta omertà non fa rima con onestà.