Io speriamo che me la cavo

Imperversa da un po’ di tempo (un po’ tanto, a dirla tutta), sul nostro suolo italico (ma anche all over the world, sempre per dirla tutta) uno strano tizio, un figuro spesso apparentemente normale, un ragazzotto dal faccino pulito e dalla parola sempre misurata. Uno di quelli che non esiteresti un attimo ad accogliere come nuovo vicino di casa, se non fosse che il tuo vicino di casa è quell’altro che urla tutto il giorno e che quando rientra a casa, alle due di notte, lo sentono altri tre comuni adiacenti, oltre il tuo. Ecco, diffidate. Per l’amor del cielo, evitatelo. Il ragazzotto, dico. Non solo non dovete fargli varcare l’uscio del vostro condominio, ma anzi accompagnarlo sul marciapiede e chiamare il primo taxi disponibile. E tanti cari saluti.

Si lo so, sembrava un così bravo ragazzo, ma datemi retta, avete lasciato andare una delle specie umane più pericolose: l’italiota 2.0.

L’italiota 2.0 è il R.I.M. (ragazzo italiano medio) de’ noantri. Vuole arrivare al successo, ma non ha il talento. Lo conoscono tutti, ma solo nel suo paesello. Ha Facebook, Twitter, Instagram e Flickr, ma 3 su 4 non li sa usare. Parla di politica, ma solo perché ha il cuggino che fa il portaborse all’assessore della sua Regione. E allora prova a sfondare in ogni modo, perché lui è un caparbio (mica uno scemo). Lo trovi dappertutto: nelle foto della serata in discoteca, in quelle della birreria, del locale affianco, della prima a teatro e perfino del distributore di benzina. Giri l’angolo e c’è lui. Fra un po’ apri l’armadio e ti spunta fuori pure da lì. Va ad Amici, a X Factor e a Italia’s Got Talent. Ma non sa cantare, né ballare, né recitare. Allora ci prova con lo sport, ma è ‘na chiavica pure col calcio, col tennis e anche con la briscola. Per non sbagliare si tuffa nella palestra, così ‘mi faccio il fisico’ (ma non era un donnaiolo?). I suoi valori sono la famiglia, il rispetto e gli amici. Che puntualmente molla come cani sulla tangenziale quando si fidanza. I suoi modelli di vita sono Flavio Briatore e Dan Bilzerian. Lui non aspetta un futuro migliore, no, ma il sabato per andare a ballare. Con i soldi di papà.

Vabbè, ci sono andato giù pesante, ma io davvero mi rifiuto di accettare che questo sia un passaggio dell’evoluzione tricolore. Non voglio credere che negli ’80, anni in cui ci si aspettava che i duemila portassero il non plus ultra in tutti i campi, s’intendesse questo. Insomma, questo, in confronto agli ’80, è la Serie B. Anzi, la Lega Pro. E allora cos’è successo? C’è stato un intoppo nella macchina dell’evoluzione? Oppure i tronisti di Maria hanno proliferato ad libitum?

La verità, come sempre, sta nel mezzo. Nel senso letterale del termine. Nel mezzo di comunicazione. Nell’educazione, negli esempi. Nei valori. Forse il non plus ultra ce l’abbiamo già avuto. E forse erano proprio gli anni ’80. E da lì siamo andati a ritroso, come fosse un boomerang antropologico. Da lì solo passi indietro. Abbiamo fatto i granchi per trent’anni, lasciando l’innovazione alla sola tecnologia e poco altro. Ma come siamo arrivati a questo? Il progressivo assenteismo di ideali, dicevo. La pochezza di valori nella società attuale. Non c’è più quell’appassionata e dolce educazione alle cose importanti della vita. I princìpi sembrano essere solo quelli con la prima “i” accentata e le ambizioni sono altre. Il successo, in primis. I soldi, subito a inseguire. Siamo passati da Berlinguer a Berlusconi senza un ammortizzatore sociale (per rubare un paradigma caro alla politica) trovandocelo subito dopo. E infatti siamo pervasi da uno strano renzismo cronico. Roba da Dr. House. Che poi non è altro che un eufemismo per delineare una certa cultura alla sufficienza. Una sorta di acribia nel ricercare il sei politico, senza mai andare oltre, tanto “chi te lo fa fare? Statte buono e fatti li cazzi tua”, Razzi docet. Siamo il popolo del farehhh, che infatti non vuol dire niente. Siamo un po’ situazionisti alla Ligabue e un po’ simpaticoni alla Fiorello, ma non abbiamo il rock del primo e manco il mordente del secondo. Siamo il nulla mascherato da rivoluzione. Rottamati più che rottamatori. Siamo gli sparring partner di noi stessi. Siamo disinnescatori. Disinnescatori seriali: sembra una nuova serie di Mtv. Siamo fittizi. Come il codice etico e il contratto con gli italiani. Siamo una supercazzola di Bombolo che viene sgamata da Thomas Milian. Sì, perché l’italiota di nuova generazione è anche questo: non sai fare niente? Non importa, nel frattempo gli standard si sono talmente appiattiti che è sufficiente essere un buon oratore per scavalcare gli altri. Se negli ’80 Falcone combatteva la mafia, ora basta dire che sei contro. Ma non troppo. E non fatelo sapere a tutti. Un po’ di indolenza, un cucchiaio di indifferenza e sale quanto basta. Shakera tutto e ottieni la nuova ‘chiesa jovanottiana’ (cit.). Un po’ tutto e un po’ tutto il suo contrario. Faccio la rivoluzione ma inizio da lunedì. Come la dieta.

In una cosa, però, siamo bravi, anzi bravissimi. Nel massificarci. Entriamo plenariamente dentro un mondo a noi parallelo, che ci circonda e ci tira a sé. E’ il mondo dove le persone hanno lo stesso taglio di capelli, fanno la stessa posa nelle foto e studiano tutti medicina. Manco ci fosse un’epidemia di lebbra. E’ il mondo delle mode, dei selfie, dei leggins militari e delle NekNomination. Un mondo che puzza di plastica. Probabilmente quando non ci saremo più ci raccoglieranno nella differenziata. Poi, per carità, in questo passaggio (a vuoto) temporale gioca un ruolo di non trascurabile importanza il web. Il web, sì. Quella cosa capace di far uscire tali mostri che a confronto Frankestein Jr. è Ryan Gosling. E non si parla solo di estetica. Attenzione, sono a totale supporto del web sin che se ne fa un uso a fini comunicativi, d’informazione o di sharing (ma quanto so’ figo co’ sti inglesismi?). Ma provate a dare un computer, un mouse e una connessione all’italiota 2.0. In due giorni scatenerà l’inferno. Prima creerà un canale YouTube riempito di soli game-play di GTA e qualche insulso video simil-comico innegabilmente ispirato a Jerry Lewis (così vai sul sicuro). E poi giù di ospitate, film e libri. Sì, perché il nuovo italiota non si accontenta. Non solo non si merita ode e proselitismi ingiustificati, ma è pure vanaglorioso. Non ha mai l’umiltà di fermarsi e di dire ‘No, questo non lo so fare e non lo faccio’. D’altronde non siamo più negli ’80, lì almeno Tomba sciava e basta e Brian May pensava solo a deliziare le folle con la sua Stratocaster. Anacronistico, quasi.

Poi succede pure che ti senti le orecchie stuprate quando gli Insigne e i Totti si presentano davanti a una telecamera con il microfono che sfiora la bocca a sfoggiare uno sgrammaticato italiano che neanche gli scolari arzanesi di Io speriamo che me la cavo, per parafrasare il libro del maestro d’Orta, poi ripreso cinematograficamente da Lina Wertmuller nel 1992. Ecco, siamo la generazione degli Io speriamo che me la cavo. Vogliamo parlare davanti a una nazione intera, ma non sappiamo mettere due parole in croce. Che poi gli alunni di Pozzetto non volevano mica parlare a una nazione intera, loro. E allora, caro il mio autore bacchettone, quali sono i tuoi rimedi a cotanta ingiustificata tracotanza? Prima cosa: leggete.

–         Leggete tutto. Leggete gli articoli del Fatto, gli orari del treno o il bugiardino del Dulcolax. Spaziate da Guerra e Pace all’ultimo libercolo di Leonardo DeCarli (chi?). Sforzatevi di capire bene il testo e provate a reinterpretarlo (fermo restando l’idea di base del contenuto) sostituendo le parole di quell’elaborato con sinonimi adeguati a vostra scelta. Imparate parole nuove ogni volte che leggete. E imparate che leggere è pure divertente.

–         Siate indipendenti dagli altri. A volte stare un po’ da soli fa bene: fa ritrovare voi stessi e vi fa pensare. Che non significa necessariamente entrare in paranoia, visto che in giro si è come diffusa quest’ansia da divertimento per cui in ogni momento della giornata bisogna svagarsi e la noia è un mostro da sgozzare. “La vita è una: vivila”. Sì, ma senza ubriacarti a tequila e cachaça di mercoledì alle quattro del pomeriggio perché “sennò mi scazzo”. Pensare significa soprattutto fermarsi e mettersi in discussione, valutarsi e valutare gli altri, pianificare. Imparate a bastarvi. Slacciate per un attimo la cintura di sicurezza della routine e riacquistate quella dignità e quell’indipendenza intellettuale che vi permette di scegliere. Ecco, createvi la libertà di scegliere.

–         Viaggiate. Sembra banale come ritornello, ma tanto lo è quanto incredibilmente utile. Calcare suoli con storie diverse, parlare lingue che non conoscevi prima, pagare con una moneta che non avevi mai toccato. Fa aumentare il bagaglio di cieli che si è visto e di figuracce che si è fatto. Viva le figuracce.

–         Informatevi sulla storia della nostra nazione, del nostro popolo. Su quello che è venuto prima di noi. E anche su quello che è venuto prima degli altri, che non fa mai male. La nostra storia ci fa alzare la testa e ci fa improvvisamente diventare orgogliosi di quello che siamo. Andate a vedere chi sono stati Dario Fo e Aldo Moro, Enzo Biagi e Fellini. Ma anche Videla e Pol Pot, Andy Wharol e Ghandi. E perché no, Socrates, McEnroe e Muhammad Alì.

Ma soprattutto provate, correte, sbagliate, intraprendete, conoscete, cambiate, migliorate, fate. Fate. Prendete in mano la vostra vita e fatene quello che avete deciso, quello che più vi appassiona, quello che sognate. Ma fatelo davvero. Così da non correte il rischio, un giorno, di dire Io speriamo che me la cavo.

 

 

 Riccardo Soro

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